Tratto dall’opuscolo “Le basi morali dell’anarchia” (1904)
Il concetto della libertà è andato sempre più rapidamente trasformandosi. Come non esiste nel mondo morale il libero arbitrio, se non come illusione ereditaria dei nostri sensi, così in senso assoluto non esiste autonomia completa dell’individuo nella società. L’istinto di socievolezza, sviluppatosi man mano nell’uomo con l’incalzare della civiltà, è divenuto bisogno fondamentale della specie, nel suo ulteriore sviluppo, e riconosce ormai nel principio di associazione la leva più salda e pronta che per gli sforzi di ciascuno e di tutti possa sospingere l’umanità sul cammino ascendente dei suoi destini migliori.
Donde la concezione tutta moderna e sociologica della libertà, che se trova nella mutua dipendenza dei rapporti tra individuo e individuo, una piccola limitazione alla indipendenza assoluta di ciascuno di essi, nel tempo medesimo trova nella rafforzata e vieppiù complessa solidarietà sociale, la sua difesa e la sua guarentigia – per modo che invece d’essere sminuita, essa si sente accresciuta.
Se l’uomo selvaggio nello stato antisociale pare a prima vista più libero, è incomparabilmente più schiavo delle forze brute dell’ambiente che lo circonda, di quello che non sia l’uomo associato, che nell’appoggio del proprio simile trova la salvaguardia dei suoi diritti.
Ma l’associazione, nel senso di aggruppamento organico delle varie molecole sociali, non esiste ancora. Poiché nell’attuale società non c’è fusione spontanea di elementi omogenei, ma amalgama incomposta di princìpi e di interessi contraddittori.
Al principio della egocrazia, nel campo economico e politico (giacché lo sfruttamento e il dominio di classe non ne sono che la conseguenza, per solidarietà istintiva delle due forze dominatrici: il danaro e il potere) sta subentrando, nella elaborazione lenta e sotterranea della nuova forma e della nuova anima sociale, il principio del mutuo appoggio, più conforme allo sviluppo della evoluzione progredita, che rimase apparentemente interrotta da questa parentesi, fosca e splendida ad un tempo, che fu il diciannovesimo secolo.
Splendida perché la stessa sfrenata concorrenza tra gli individui e le classi, che rappresentò – sul terreno economico – un vero e proprio ritorno al selvaggio individualismo primitivo, creò i miracoli della meccanica, dell’industria, della ingegneria moderna. Fosca, perché le opere gigantesche di questa lotta, a colpi di miliardi contro la natura resistente, costò milioni di vite umane, di nobili esistenze oscure, spente dopo stenti inenarrabili, coi muscoli spremuti d’ogni forza, e d’ogni vitalità sotto la strettoia del salariato. Cosicché può dirsi che il colossale edificio della civiltà borghese, il quale avrà pure un posto cospicuo nella storia del progresso materiale e scientifico dell’umanità, è stato costruito con cotesto cemento di vite operaie, e la grande anima collettiva delle classi laboriose palpita nell’organismo infinito di tutta la moderna produzione, come se la forza animatrice di quelle vite spente sul lavoro, o per il lavoro, fosse trasfusa nelle cose dal lavoro create.
Da questa condizione nuova di operosità e di sforzi associati, per i mutati mezzi di produzione, in cui dominano sovrane la grande macchina e la grande officina sorge trionfale il principiò giuridico nuovo di un diritto sociale sul prodotto dovuto al lavoro collettivo.
Non sono più le lamentele sentimentali dei santi padri della chiesa contro la iniquità che, calpestando i più, divide gli uni dagli altri i figli di dio, come diceva Giovanni Crisostomo. E neppure sono le dichiarazioni naturiane dei preraffaeliti del socialismo semplicista reclamanti per ciascuna la sua parte di terra, di pane e di sale – a tutti in comune elargito dalla natura madre. Non
sono le invettive ascetiche dei vecchi comunisti, innanzi alle paure del millennio; non le dichiarazioni filosofiche ed astratte degli enciclopedisti sui diritti dell’uomo, dinanzi alla rossa alba dell’89. È qualche cosa di più, e di meglio: la maturità di certi fatti, e la compiuta evoluzione di certe forme.
Mai come adesso, per le necessità della divisione del lavoro nella grande industria e nell’opificio meccanico, l’operaio si trovò sì strettamente legato all’operaio, i mestieri ai mestieri, le arti alle arti, mercé la mutua dipendenza e lo studio combinato degli sforzi da cui si sviluppa una risultante assai maggiore della semplice somma delle forze singole. L’associazione di cotesti sforzi per accrescere la produzione, è andata man mano creando, oltre che i legami materiali, che ormai allacciano indissolubilmente i lavoratori tra loro anche quei legami morali, da prima inavvertiti, e poi, di volta in volta più saldi, perché più coscienti.
E poiché la rivoluzione ormai completa apportata dalla meccanica in tutte le arti ed in tutti i mestieri col socializzare nella fatica le braccia operaie, lavoranti prima isolate, ha già elaborato lo scheletro di un mondo nuovo, nel quale la socializzazione della fatica senza il godimento del prodotto, per parte di chi si affaticò, sia completato dalla socializzazione dei godimenti del prodotto medesimo, dichiarato di diritto e di fatto patrimonio comune alla intera società, una corrispondente rivoluzione delle coscienze e delle forze proletarie compirà il lento lavorìo di cotesta trasformazione dei rapporti economici e morali tra gli uomini, integrando la struttura sociale tipica, che rappresenti l’oasi di riposo ove l’umanità dopo i millenni di travaglio e di dolore, possa riprender lena dal faticoso cammino ed ove i due istinti fondamentali dell’uomo, conservazione dell’individuo e
conservazione della specie, trovino alfine il modo di conciliarsi dopo il lungo dissidio; dove l’uomo, per conquistare il suo benessere non debba passare – come i prepotenti dell’oggi e dello ieri – sul corpo dei propri simili; giacché questa non sarebbe la libertà, bensì la perpetuazione della tirannide sotto altra forma. Alla violenza dei governi subentrerebbe la violenza dell’individuo – espressioni brutali, l’una e l’altra, della autorità dell’uomo sull’uomo. La libertà di ciascuno non è possibile che nella libertà di tutti, come la salute di ogni cellula non può essere che nella salute dell’intero organismo.
di Pietro Gori